Al Teatro India di Roma vedo Tre studi per una crocifissione di Danio Manfredini.
Manfredini comincia a lavorare nel teatro negli anni settanta e oggi è considerato uno dei maggiori attori e registi italiani.
Reduce dalla vittoria del Premio Ubu con Cinema Cielo per la miglior regia, replica qui uno spettacolo su cui lavora e che rielabora dai primi anni ’90.
Tre studi per una crocifissione prende il titolo da un trittico del pittore Francis Bacon, e mette in scena tre diversi personaggi che similmente vivono una condizione di emarginazione nella società.
Il primo vive in un contesto psichiatrico, il secondo è il transessuale Elvira (personaggio di Un anno con 13 lune di Fassbinder), l’ultimo lo straniero di La notte poco prima della foresta di Koltès.
Tre monologhi in uno spazio pressoché vuoto, qualche sedia e qualche tavolo, con musiche dai film di Pasolini e Fassbinder, e Bach, su cui Manfredini balla dieci minuti di un frenetico tip tap.
La drammaticità delle tre vite è resa insieme con intensità e piccoli gesti, accenti diversi e parole buffe, su cui si ride per accorgersi nello stesso momento che non c’è niente da ridere.
Manfredini è un grande attore.
Commuove il rito che per due volte prende spazio a lato della scena, illuminato da un taglio di luce rossa, in cui, dopo essersi letteralmente spogliato di un personaggio, rimane qualche secondo immobile ad occhi chiusi per poi – con le movenze del personaggio seguente – rivestirsi e riprendere possesso della scena.