È del 12 luglio scorso la circolare di aggiornamento delle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine” emanata dal Ministero della Salute (preannunciata già dal Ministro Speranza qualche tempo prima). Le nuove linee di indirizzo – passate al vaglio del Consiglio Superiore della Sanità, che ha espresso parere favorevole – estendono la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico fino alla nona settimana (prima era fino alla settima) e confermano che l’interruzione di gravidanza possa avvenire presso strutture ambulatoriali, consultori e in regime di day hospital.
Si era fatta attendere questa circolare, che aggiorna finalmente le linee di indirizzo del 2010. E mentre la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) consigliava vivamente di favorire l’aborto farmacologico in regime di day hospital (soprattutto ultimamente, per paura di congestionare le strutture sanitarie in periodo di Covid-19), il Ministero non aveva ancora preso una posizione chiara sull’argomento, il che dava la possibilità alle singole regioni di regolarsi in autonomia. La maggior parte delle regioni, da tempo, si era di fatto regolata secondo le indicazioni della SIGO (e secondo la modalità adottata dalla maggior parte dei Paesi europei), ma qualche giunta aveva approfittato della poca chiarezza a livello nazionale per fare qualche passo indietro e iniziare di nuovo a picconare la 194, come ciclicamente avviene nel nostro Paese: nel giugno di quest’anno la nuova giunta di centrodestra dell’Umbria, guidata da Donatella Tesei aveva infatti abrogato una delibera che permetteva l’assunzione della Ru468 in day hospital, obbligando le donne che volessero ricorrere all’IVG ad un ricovero di tre giorni.
Inutile dire che questa disposizione, che incontrava il favore della Lega – e soprattutto di uno dei più accesi sostenitori della causa antiabortista, il senatore Pillon, autore dell’omonimo disegno di legge – ha fatto molto discutere, ricevendo molte critiche da varie esponenti di partiti italiani. Molte donne sono scese in piazza a Perugia per manifestare nei giorni immediatamente successivi alla delibera.
La circolare mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo e quasi riempito di gratitudine nei confronti di un Ministero che però, a pensarci bene, ha fatto solo quello che doveva. Questa circolare è un atto dovuto, nel rispetto di quella legge che ancora oggi, dopo più di quarant’anni, fatica a trovare una sua effettiva attuazione. Uno dei motivi di questa mancata garanzia risiede nell’articolo 9 della legge stessa, relativo alla possibilità, per tutto il personale sanitario, di esercitare l’obiezione di coscienza. Intendiamoci, sarebbe un articolo – e un principio – che potrei (anche se con fatica) pure rispettare, se non fosse che nella maggior parte delle regioni italiane, l’obiezione di coscienza rende davvero difficile la vita delle donne che decidono di abortire. Infatti la percentuale degli obiettori è davvero altissima e non c’è alcun provvedimento che regoli la loro presenza nelle strutture.
L’ultimo rapporto dal Ministero della Salute ci dà un quadro della situazione nel 2018 e ci dice che il 69% dei ginecologi italiani sono obiettori, così come il 45% degli anestesisti e il 42% del personale non medico (cifre in aumento rispetto all’anno precedente). La percentuale, già alta, è in alcuni territori altissima: supera l’80% in sette regioni e il 90% in Trentino Alto-Adige, Basilicata e Molise.
L’obiezione di coscienza, per legge, non esonera il medico obiettore dal prestare assistenza nelle fasi antecedenti e conseguenti all’intervento, né l’obiettore può rifiutarsi di praticare l’intervento qualora sia a rischio la vita della donna. Ma a quanto pare, in Italia, ciò non è così scontato, visto quanto è avvenuto a Napoli un paio di anni fa, o quello che è successo a Valentina Milluzzo, morta nel 2016 all’età di 32 anni, insieme ai due gemelli che portava in grembo. Era al quinto mese ed era ricoverata da quindici giorni per una complicazione. I familiari sostengono che Valentina si sarebbe potuta salvare se i medici, appellandosi all’obiezione di coscienza, non si fossero rifiutati di praticare l’aborto nel momento in cui la situazione precipitò. I medici sostengono invece (sono indagati in sette, con l’accusa di concorso in omicidio plurimo) che non riuscirono a bloccare la sepsi che in 12 ore ha causato la morte di Valentina. E mentre test clinici finti e veri appaiono e scompaiono come per magia gettando inquietanti dubbi sull’operato del personale sanitario, Valentina e i suoi gemelli non vivono più.
L’obiezione di coscienza, tra l’altro, non ha a che fare solo con la discutibile convinzione che la vita del feto vada difesa al pari di quella della madre, come insegnano quelli del Movimento per la Vita che si sono insediati all’interno di almeno sette strutture sanitarie lombarde. Una ricerca di qualche anno fa evidenzia come sempre più spesso, ci siano altre motivazioni a far diventare obiettori tanti ginecologi: pare infatti che incidano molto la stigmatizzazione da parte di colleghi obiettori, le prospettive di carriera e di guadagno, o ancora la mancanza di una formazione adeguata in tecniche abortive.
Su questo ultimo punto vorrei citare un caso piuttosto grave di cui ho letto da poco, che riguarda il Campus Bio-Medico di Roma, università voluta e diretta dall’Opus Dei. Fino a pochissimo tempo fa, nella Carta delle Finalità del Campus veniva esplicitamente dichiarata l’obbligatorietà per tutto il personale docente, tutti gli studenti e tutti i frequentatori a praticare l’obiezione di coscienza. Come se non si trattasse di una scelta personale ed individuale ma di una disposizione adottabile da una intera struttura sanitaria, o – forse peggio – educativa. Senza contare l’illegalità insita in una disposizione del genere.
Recentemente, a seguito delle proteste di molti medici e di varie associazioni, in particolare l’Associazione medici italiani contraccezione e aborto (AMICA), l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti italiani (UAAR) e l’associazione Luca Coscioni, il Campus ha modificato la Carta delle Finalità eliminando l’obbligatorietà di cui sopra. Tuttavia le suddette associazioni continuano a chiedere al Ministero della Sanità che sia verificata la completezza dei programmi di studio della Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia del Campus Bio-medico in tema di interruzione volontaria della gravidanza e contraccezione. E, giustamente, qualora tali insegnamenti non fossero presenti nei programmi formativi, chiedono la revoca dell’accreditamento.
Io credo più semplicemente che chi, per motivi religiosi sia contrario all’aborto, alla contraccezione o alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, non dovrebbe intraprendere gli studi o la carriera di ginecologo, o di ostetrico. Ci sono tante specializzazioni in medicina, e tanti altri lavori oltre a quello di medico. A dire il vero io sarei ancora più radicale: eliminerei proprio l’articolo 9 della legge 194 ma so che questa proposta non avrebbe molto successo in questa Italia cattolica, moralista (quando conviene) e sempre più destrorsa. Però qualcuno la pensa come me: al San Camillo di Roma ad esempio, i medici obiettori non li assumono più.