Saverio La Ruina scrive, dirige e recita in Dissonorata. Una storia che ci racconta seduto su una sedia, con pochi gesti, in calabrese stretto, facendoci sorridere e commuovere.
La storia amara di una ragazza molto giovane, quarta figlia di una famiglia di un paesino calabrese nel dopoguerra, famigerato per il numero di “zitelle”.
Lo spettacolo dura un’ora, forse qualcosa di più, ma è difficile distrarsi, nonostante la staticità e l’ostacolo del dialetto.
Saverio La Ruina è bravissimo.
Nessuna parola, nessun minimo movimento è lasciato al caso.
Tutto rientra nella costruzione, nel testo perfetto (mai eccessivo, mai povero), nella magistrale interpretazione.
E alla fine, al momento del commiato, quando Gracias a la vida accompagna dolcemente le luci che si abbassano, il mistero della nascita e dell’amore è più forte del dolore e della violenza, ed è difficile applaudire ad occhi asciutti.
Mi piacerebbe che l’attore, e il teatro più in generale, potessero avere sempre questo effetto. Parlare di quelle cose semplici che semplici non sono, arrivando con una naturalezza umile e composta a pigiare il dito su quello che ci avvicina, piuttosto che su ciò che – in mezzo alla confusione – finisce per allontanarci.