Il male è cronico. E così incastonato che è fatto abitudine, precedente, costume, cultura.
Certo, non c’è forse bisogno di dirlo, si sa. Ma nello stesso giorno ti capita che un amico te lo sottolinei con violenza, rabbia e frustrazione e un’amica ti riporti il suo vissuto. Che è interessante perché, in effetti, non tutto è noto, seppure – data l’abitudine – neanche così sconvolgente.
Parliamo delle sfere diplomatiche, irrimediabilmente e per forza avviluppate alle alte sfere ministeriali.
Parliamo di uffici che si occupano di affari esteri, ma nel corridoio encomiabile della cooperazione per lo sviluppo dei cosiddetti Paesi del secondo e terzo mondo (di cui stiamo per diventare parte, nella corsa all’autodemolizione).
Parliamo di uffici zeppi di ottantenni che sono in pensione da anni ma mantengono la sedia (e lo stipendio) per le uniche tre questioni di cui oggi valga la pena occuparsi: denaro, prestigio e potere; persone che passano giornate intere a leggere il giornale, punto.
Parliamo di frotte di giovani laureati, competenti, attivi, volenterosi che non vengono assunti perché non ci sono soldi: servono per mantenere le poltrone di cui sopra e assumere i figli, i cognati, le nuore, i nipoti delle poltrone di cui sopra.
Parliamo della pressoché totale esclusione della prospettiva meritocratica, della cecità dilagante che impedisce di guardare alla crescita, all’innovazione, all’osannato e malinteso progresso.
Parliamo del male radicato, che pertiene in primo luogo agli spazi adibiti al tentativo del suo sradicamento.
Parliamo di oggi, del mondo, ma soprattutto di questo accidente di Paese.
Una risposta su “Il male”
Alla fine è sempre una questione di clientelarismo e ipocrisia, ad ogni livello, dal più apparentemente “innocente” al più mafioso. Ed è ciò che ci rende insoddisfatti, frustrati, rabbiosi e impotenti. A volte avrei solo voglia di spaccare tutto. Non so se questo male affligga solo il nostro paese, ma sono certa che qui raggiunge vette incommensurabili.