Daigo è violoncellista a Tokio, ma ormai l’orchestra ha chiare difficoltà a fare botteghino, e viene sciolta. Daigo ritorna con la giovane moglie nel suo paese natale, e nella casa che fu locanda della famiglia – nel soggiorno un bellissimo tavolo triangolare – sciolta anch’essa: quando Daigo aveva 6 anni, il padre abbandonò moglie e figlio per un’altra donna.
Tornato alle radici, e alla ricerca di un lavoro, Daigo è convinto, rispondendo ad un annuncio di giornale, di imbattersi in una specie di agenzia di viaggi. Invece, finirà per fare il tanatoesteta accompagnando i “clienti” nell’unico, vero e ultimo viaggio e nel loro saluto estremo alla vita.
Departures sembra volerci ricordare con prepotenza quanto il corpo, ora carne priva di movimento e di “anima”, fino a poco prima è stato del tutto vitale. Ci ricorda che la morte, in tutta la sua naturalezza, ovvietà ed essenza, è parte della vita, di più: è la vita stessa.
La cultura – in particolare la cultura giapponese, cerimoniosa, puntigliosa e pudica – che divide in modo netto e contraddittorio la vita e la morte, è qui beffeggiata dal più alto senso umano e di compassione di colui che scopre, malgrado i tabu e i voltafaccia di amici e parenti, quanto il mestiere da lui imparato con devozione sia tra i mestieri più dignitosi mai intrapresi dall’uomo.
Il rito giapponese con cui il corpo viene pulito, vestito, truccato di fronte ai familiari è un momento di altissimo teatro (nella cura e perfezione d’esecuzione, e nella commovente partecipazione al rito), sufficiente di per se stesso a portare tutto il senso del film.