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Cinema

Haneke, Segre, Affleck

di W.E.

I tre film visti nelle ultime due settimane (a parte altre cose in cui ho inciampato e di cui mi occuperò più avanti), sono stati girati dai registi nominati nel titolo.

L’ultimo film di Haneke, Palma d’oro al Festival di Cannes, è, come ho letto da qualche parte, bellissimo e dolorosissimo. Parigi: la vita di Anne e Georges, due insegnanti di musica in pensione – una coppia unita e complice che trascorre la vecchiaia con serenità – viene sconvolta dalla progressiva paralisi cerebrale di lei in seguito ad un ictus. La storia che Amour narra inizia violentemente partendo dalla fine (con una scena che ovviamente non vi racconterò), senza però anticipare del tutto la complessità del titolo. Il resto del film è un lento procedere a quell’esito, un viaggio nel quotidiano in cui il regista ci accompagna attraverso i dettagli del percorso che la coppia si trova ad affrontare. Sono le piccole espressioni del viso, i passi incerti, le sbaffate reazioni inconsulte, la sofferenza silenziosa, la rabbia repressa, il senso d’impotenza trattenuto, che ci fanno leggere il modo in cui i due protagonisti vengono via via a contatto con la realtà di quello che gli sta accadendo. Improvvisano soluzioni, si sforzano di fare il meglio che possono, di fare ciò che è giusto, nel tentativo di non riununciare a lottare. È incredibile come Haneke, a tratti, riesca quasi a togliere le rughe ai due attori facendoli sembrare due anime senza età, due persone nel mondo che come milioni di altre si trovano a faccia a faccia con la malattia e la morte. Le persone: tutte uguali davanti alla malattia, la morte, la separazione, tutte uguali e tutte sole; quando ancora non lo sanno, indistinguibili nella platea di un teatro, ma anche quando lo comprendono con terrore davanti agli occhi delle persone che più amano e da cui sono più amate.
Grandissima prova di Jean-Louis Trintignant e Emanuelle Riva.
I titoli di testa e quelli di coda, in bianco su nero, regolari, composti, e muti (non hanno alcun sottofondo musicale), sembrano contenere già tutta la lucida e ineluttabile realtà della malattia che, come farebbe un sonoro schiaffo, sveglia l’essere umano dal torpore dell’abitudine alla vita.

Io sono Li è il primo lungometraggio di finzione di Andrea Segre, giovane e talentuoso regista italiano (tra i suoi documentari, Mare Chiuso, Il sangue verde, Come un uomo sulla terra) – film che, come altre ottime pellicole italiane, ha inizialmente avuto una distribuzione insufficiente e discontinua.
A Li, giovane cinese che lavora in una fabbrica a Roma, viene ordinato di trasferirsi a Chioggia per gestire un piccolo bar davanti alla laguna veneta.
Li è una donna gentile, solerte, e corretta, con un unico obiettivo: lavorare senza risparmiarsi per saldare il prima possibile il debito che la separa dal ricongiungimento con il figlio di 8 anni. L’unica persona a comprenderne l’animo e a diventarle amica è Bepi – guarda caso un altro straniero – un pescatore di origini slave che frequenta abitualmente il bar. Bepi si affeziona a questa donna, così lontana dai modi sbrigativi e stretti della laguna e dal suo dialetto impervio.
Da un lato la comunità operosa, chiusa e diffidente dei cinesi, che contribuisce a definire la società in cui costruisce i suoi affari senza appartenervi, dall’altro la piccola comunità veneta abituata ai capricci del mare ma poco avvezza a conoscere quello che si può trovarne al di là, sono come attraversate da queste due figure che, in modo del tutto naturale, ne prendono le distanze. Il loro essere diversi li avvicina, creando quella corrispondenza di affetti in grado di regalare loro una gioia leggera a fine giornata, un sorriso, una storia, una poesia, e che gli permette di uscire dalla loro solitudine.
Segre osserva tenendosi a distanza, senza cadere in facili sentimentalismi, questo incontro sulla laguna, dove il volo dei gabbiani si confonde con le cime innevate che si scorgono lontano, e dove l’acqua ricopre le banchine fino a insinuarsi dolcemente nelle case, dove la natura somiglia alla natura umana, condividendone la malinconia e il mistero.

L’ultimo film che ho visto è la terza regia di Ben Affleck. Argo ripercorre l'”esfiltrazione” di sei membri dell’ambasciata americana ostaggi in Iran, avvenuta ad opera dell’agente della CIA Tony Mendez nel novembre del 1979 – quando lo scià Mohammad Reza Pahlavi era costretto a fuggire e Khomeini prendeva il potere. Per coprire l’uscita dei sei diplomatici dal Paese, in accordo col governo canadese e con il benestare di Carter, venne dato il via ad una finta produzione cinematografica (un copione fantascientifico dal titolo “Argo”): la CIA operò con l’aiuto di Hollywood e in particolare del truccatore John Chambers (John Goodman) e del produttore Lester Siegel (Alan Arkin), e attraverso un fittizio studio di produzione (Studio 6 – dal numero degli ostaggi). Tony Mendez entrò in Iran e si mise in contatto con i quattro uomini e le due donne, nascosti nell’ambasciata canadese, fornendogli nuove identitià e passaporti falsi, istruendoli sull’operazione e riuscendo infine a imbarcarli su un volo della Swiss Air.
Argo è un film pieno di suspance, soprattutto nella parte finale (tanto che pur conoscendo l’esito dell’operazione, lo spettatore soffrirà fino all’ultimo secondo insieme ai protagonisti) ma è anche un film asciutto, che non indulge sul sensazionalismo dell’evento né fa leva, come molti film di spionaggio a stelle e strisce, sulla tipica affermazione della superiorità americana. Ci vollero molti anni prima che si potesse svelare il modo in cui la CIA e Hollywood avevano contribuito a questa “esfiltrazione”, che al tempo fu attribuita nella sua totalità al governo canadese. La soddisfazione della riuscita di questa idea, originale tanto quanto rischiosa, somiglia proprio a quel segreto non svelato, si legge nell’impercettibile sorriso che il protagonista Tony Mendez (lo stesso Affleck), si concede alla fine, quasi una smorfia involontaria che accompagna il ritirarsi del carrello dell’aereo e l’abbandono del suolo iraniano.

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