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Teatro

La Medea dei corpi di Antonio Latella

di W.E.

Assisto ad un capitolo dello Studio su Medea di Antonio Latella (Medea e figli, gli altri: Medea e Giasone, Medea Dea), rilettura del testo di Euripide e non solo, in cui il mito della dea della Colchide è offerto al pubblico attraverso l’opera e il movimento dei corpi in scena.

Tre strutture in ferro battuto per tre letti (uno matrimoniale e due singoli) costituiscono la scenografia scarna, sempre poco illuminata, che gli attori usano in mille modi diversi – capovolgendo, girando, decostruendo, rimontando, trasportando – e che diventano gabbia, rifugio, altalena, alcova.
I corpi mostrano lo sforzo primitivo del gioco, dell’amore, del dolore e della rabbia e la loro nudità riesce a non essere gratuita o fittizia, ma funzionale al discorso.
La parola è poca cosa (e per questo diventa più forte): l’alfabeto greco, i dieci comandamenti in lingue diverse, e poi grugniti e suoni per lo più. La musica è spesso ritmo primordiale che scandisce una marcia, un cammino felino a quattro zampe o accompagna una coreografia da night show.

Latella lo dice, nelle note di regia:
“Tre tele sporche, caotiche, colori gettati di getto senza una grammatica, una logica, la rottura di una forma, anzi il tentativo utopico della non formalizzazione. Da questo caos è la memoria dei corpi, della carne, che prende il sopravvento”.

La composizione funziona molto bene, gli attori sono molto bravi, lo spettacolo è molto bello. Mi dispiace di non aver potuto vedere gli altri due capitoli dello Studio e so che cercherò di non perdermi altri suoi spettacoli in giro da queste parti.

Ma non esco entusiasta, come invece accade ai miei amici, e mi rendo conto che lo spettacolo non mi emoziona granché, non “mi prende” come vorrei.

Mi chiedo perché.

Penso inizialmente che si tratti del mio dannato snobismo, che mi porta avanti i dubbi prima delle scoperte piacevoli.

Penso poi che invece si tratti della solita maledetta abitudine ad arrivare con grandi aspettative (non avevo mai visto niente di Latella pur avendone letto e sentito molto parlare e sempre molto bene).

Poi penso che forse dipende dal fatto che recentemente ho studiato Medea con interesse, letto i testi di Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro, il romanzo di Christa Wolf; rivisto il film di Pasolini e scoperto il bellissimo film di Lars Von Trier. E che quindi per tutto lo spettacolo ho cercato quei riferimenti per interpretare la differenza di lettura.

Allora mi domando: forse sarebbe meglio arrivare digiuni a vedere uno spettacolo? Senza conoscerne il testo? Questa domanda me la sono fatta un sacco di volte ma senza riuscire a darmi una risposta precisa.
Forse perché non c’è.

Infine arrivo alla conclusione.
La messa in scena di Latella è perfetta considerando il presupposto da cui parte. Ma è proprio il presupposto che non mi interessa.
Non mi interessa la predominanza del primitivo, dell’arcaico, del corpo.
Non in generale, non mi interessa in Medea.
Al contrario, mi interessa la complessità del personaggio, la sua contestualizzazione sociale e culturale, la statura tragica che deriva anche dal suo potere di veggente e di dea figlia del Sole, costretta alla disperazione di una donna/madre sconfitta.
M’interessa la sua mente, forse, più che il suo corpo, m’interessa quel mistero che fa del testo di Euripide un testo difficile e importante e che invece di accomunare Medea a tutte le altre donne la trasforma in una donna diversa da qualsiasi altra.

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