Ricordate quei due personaggi buffi che in Palombella Rossa parlano con Moretti a bordo piscina? Bene, si tratta di due personaggi importanti per il teatro italiano, che dal 1980 al 1992 lavorano insieme per poi separarsi. Alfonso Santagata (regista visionario, negli ultimi anni si è confrontato con la tragedia classica e molto recentemente con De Filippo. Ora è in tournée con il Teatro Comico ovvero il padre rivale del figlio di Goldoni) e la compagnia Katzenmacher da una parte, Claudio Morganti dall’altra. Claudio Morganti, oltre che regista, è un grande attore. Uno spettacolo piccolo, con una sedia ed una scrivania, due luci due, zero musica, può essere, grazie alla sua interpretazione, uno spettacolo enorme.
È il caso di L’amara sorte del servo Gigi, in cui l’attore, in un semplice prologo spiega che si può prendere un testo, sostituire tutte le parole con altre mantenendo la struttura drammaturgica originaria e far ugualmente “accadere” il teatro.
Nel frattempo, si bagna la faccia con l’acqua da una ciotola e poi se la imbianca di farina, passa un rossetto sotto gli occhi e sulla bocca, mette un cappello e – a prologo concluso – letteralmente si trasforma in un vecchio malandato Krapp che invece di mangiare banane addenta fette di prosciutto facendo bene attenzione a scartarne il grasso.
Il teatro italiano, in crisi per la mancanza di fondi – in un epoca in cui la rappresentazione che non sia su schermo deve forse solo sperare in un rinnovato interesse da parte di un pubblico distratto – è ricco di punte di genio e di grandi interpreti, spesso noti solo agli operatori del settore, altrettanto spesso nascosti sotto la mole schiacciante dei cartelloni stagionali dei teatri dove grandi nomi, grandi scenografie e sostanziosi finanziamenti ammiccano al pubblico con operazioni facili e rassicuranti.
Penso alla Katzenmacher, a Claudio Morganti, a Egumteatro (per citarne alcuni) e poi immagino il bilico del Gattopardo di Barbareschi (cinque ore solo per scaricare la scenografia) che viaggia per le autostrade italiane. E mi viene il nervoso.
Dal programma di sala de L’amara sorte del servo Gigi
(ovvero, dell’importanza di essere vecchi dentro: studio giovanile in forma di vecchiaia, illegalmente-forzatamente e poi deliberatamente, liberamente i-spirato, uguale sputato, dove si tenta il “ricalco” di un famoso testo teatrale del ‘900, di autore ancor più famoso, che narra storie di vecchi e diari meccanici,
dove si constata come l’importante sarebbe essere
vecchi dentro, ma ci si accontenta di esserlo fuori
poiché l’occhio vuole la sua parte
e dunque
mangiar prosciutto non è come mangiar banane, ma se il prosciutto assomiglia alla lingua,
allora mangiar prosciutto
è come mangiarsi la lingua ovvero una banana
poiché quando scarpe e cappello sono separate da un cretino, altro non sono che un paio di scarpe con il cappello, ovvero, un cappello deambulante con le scarpe ai piedi
e/o un paio di scarpe con un cappello in testa,
ovvero il bianco: il colore del lutto,
ché si narra delle disagevoli, disarmoniche, disperate avventure amorose di un uomo fra i più cretini e dunque si potrà vedere come non sono gli uomini ad aderire alle ideologie, ma le ideologie agli uomini
dove si potrà seguire con orrore e apprensione il dramma di un uomo con un lungo passato, un breve futuro ma nessun presente.