Scopro che non è il secondo film di Eugenio Cappuccio, ma bensì il quarto, nonostante tutti parlino soltanto degli ultimi due (questo e Volevo solo dormirle addosso).
Per me, comunque, il primo.
Mi rendo conto che il tema del soggetto, niente di particolarmente originale, e il protagonista, Fabio Volo, rendono immediatamente scettici i cinefili, ancora prima di averlo visto.
Invece la critica apprezza questo piccolo film. E secondo me, a ragione.
Piccolo perché parla in modo delicato di temi complessi (l’impotenza di fronte alla malattia e il conseguente attaccamento alla vita di cui si riscoprono tutte le cose belle e tutte le difficoltà) che poi sono in realtà banali, nel senso che sono sempre stati lì per tutti gli uomini e in tutte le epoche.
Proprio per questo è difficile scrivere una sceneggiatura e dei dialoghi che non siano scontati, e poi non vale solo per il cinema.
Ieri sera ho finito di leggere Un matrimonio da dilettanti di Ann Tyler, la semplice storia di un uomo, una donna e la loro famiglia nel corso degli anni, che semplice non è, perché la vita non è semplice.
Per nessuno.
È un libro bellissimo.
Il film di Cappuccio è un po’ così – cioè non voglio paragonare le due cose: se si potesse direi in ogni caso che il libro di Ann Tyler è stata un’esperienza molto più bella e molto più ricca –, riesce a parlare allo spettatore in modo sincero, senza cadere nella facile trappola della lacrima da strappare a tutti i costi.
Attori bravi, compreso Fabio Volo (ma mi era sembrato niente male anche ne La febbre di D’Alatri) che il regista riesce a dirigere in una recitazione contenuta, e un Ninetto Davoli inedito e commovente.
Forse, solo un appunto: la prima parte, in cui si accenna lo stile di vita del giovane avvocato rampante, rischia di non essere poi così credibile.