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Teatro

Mishelle di Sant’Oliva

di W.E.

Mishelle di Sant’Oliva è un breve spettacolo di Emma Dante (come per gli altri spettacoli, sono suoi testo, regia, scene e costumi) in cui padre e figlio tracciano il loro difficile rapporto attraverso la rievocazione della moglie/madre che li ha abbandonati anni prima.

Ognuno occupando il suo spazio (due tende di due diversi colori e due sedie), da cui escono sul proscenio in danze scomposte e grottesche o da cui Salvatore (alias Mishelle), il figlio, invade con le sue carni strabordanti la postazione paterna per schernirlo o stringerlo a sé, come se l’appartenenza a questo uomo barubuto fosse l’unica possibile.

Il testo è in siciliano stretto, quasi incomprensibile – come scrive Palazzi – e io toglierei il quasi.
A tratti gli attori – molto bravi – dicono qualche frase in italiano per riprendere le fila e ricondurre a sé gli spettatori. E se è vero che forse il testo non è così necessario, la frustrazione rimane. E porta con sé, per lo meno per quanto mi riguarda, frequenti distrazioni.

Il corpo di Mishelle, così forte, non avrebbe forse bisogno di tanto eccessivo e continuo movimento.
Le risate, forse, dovrebbero essere meno frequenti per non diventare forzate.

Nel complesso vedo due attori bravi, un testo che accenna al problema dell’omosessualità e dei difficili rapporti familiari nella Sicilia palermitana, sento belle muische che mi sembrano più o meno funzionali alla scena.
Ma niente vibra.

Cerco di riaccomodarmi sulla sedia, cambio la gamba accavallata, immagino uno spettacolo in una lingua inventata ma totalmente comprensibile, penso al libro che ho comprato e che leggerò una volta a casa prima di addormentarmi.

Non entro, niente trasporto. Il solito problema: troppe aspettative, forse.
Parlo con persone a cui è molto piaciuto.
Ma va bene. È sempre bello riuscire ad avere un’opinione personale.

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