C’era una volta il treno.
Mezzo bello e popolare.
Incontravi gente, chiacchieravi.
Ti affacciavi al finestrino, socchiudendo gli occhi controvento.
Sedevi comodo, con un sacco di spazio, allungavi le gambe, allungavi il sedile, aggiustavi il poggiatesta, dormivi.
Guardavi rapito il diorama che scorreva incessante di là dai grandi finestrini.
Passeggiavi nei corridoi, mangiando un panino.
Anche nella canicola, non faceva mai davvero caldo. Tutti abbassavano i finestrini, le tendine svolazzavano impazzite, e tutto trasfigurava in un’atmosfera, a dispetto del clangore, ovattata, da sogno. I treni erano raramente puntuali ma frequenti, e in qualche modo arrivavi sempre.
Cominciò tutto con l’Intercity. Primi vagiti di un’efficienza di facciata. Da città a città senza fermate intermedie. Bene: efficace, europeista e veloce. Adatto a noi gente produttiva. Certo si pagava un bel po’ di più, sotto forma di quel bizzarro biglietto aggiuntivo chiamato supplemento. Certo, per uno che all’università si faceva tutti i giorni Firenze-Bologna-Firenze e si ritrovò da un giorno all’altro il biglietto quasi raddoppiato per un servizio identico a prima – non ci sono fermate intermedie fra Bologna e Firenze, se non i cinque minuti di Prato – la cosa fu fonte di una certa perplessità.
Le prime vittime furono i diretti e i rapidi, e anche gli espressi cominciarono a declinare. Poi la crisi economica, gli scandali, i tagli alle reti regionali e al personale, giù giù in un vorticare di cambiamenti che culminò in lui, il Treno di Oggi, simbolo e summa di quel che sono diventate, e si avviano sempre più a essere, le rotaie italiane: l’Eurostar.
L’Eurostar costa un botto, ma non va più veloce. Fa più veloce, perché ferma poco, ma non va più veloce. Recentemente m’è capitato di prendere uno degli ultimi espressi rimasti, Milano-Agrigento – che piacere rivedere quei grandi sedili, i corridoi deambulabili, i finestrini grandi e apribili a piacimento!: ebbene, Milano-Bologna con fermata a Piacenza, stesso tempo dell’Eurostar. Bologna-Firenze, mezz’ora in più, ma solo perchè si ferma in continuazione per cedere il passo agli Eurostar.
L’Eurostar costa un botto, dicevamo. È piombato come il treno di Cassandra Crossing: i finestrini sono piccoli, hanno i doppi vetri, nessuna apertura e sono pieni di riflessi. Al minimo calar della luce il diorama esterno dissolve, e al suo posto si materializza la tua faccia corrucciata che strizza gli occhi: ma non per il vento, per capire cosa cazzo ci sia là fuori.
Sull’Eurostar, che costa un botto, si sta seduti scomodi. Lateralmente, devi condividere col vicino un bracciolo largo tre centimetri. E se il vicino è grasso o grosso, straborda sul suo sedile come una palla di gelato sul cono, invadendo il tuo spazio vitale. Frontalmente, con le gambe serrate da un tavolino che impedisce ogni accavallamento, s’instaura un complesso gioco diplomatico col dirimpettaio sul come e dove posizionare gli arti inferiori. Verticalmente, i sedili son stati studiati in modo tale da scongiurare qualsiasi tentazione di assopimento: alla minima perdita dei sensi, il busto si scolla dallo schienale, la testa, sbilanciata dal collo come un fiore spezzato, cade preda della forza di gravità, e l’immediata sensazione di caduta nel baratro ti riporta prontamente alla veglia. I più eroici, quelli che osano persistere, sembrano impiccati lasciati lì a penzolare per monito.
L’Eurostar, che – l’ho già detto? – costa un botto, è piombato e climatizzato. Qualsiasi sia il clima esterno, dal torrido tropicale alla perturbazione preglaciale, sull’Eurostar c’è sempre lo stesso clima artificiale. E questo clima artificiale è vagamente freddino ma accettabile l’inverno, quando sei col maglione. D’estate, è un’orribile e psicotica cella frigorifera. Fuori vedi i campi gialli di girasoli assolati, immagini i profumi di terra e di erba, il ronzare degli insetti, il frinire delle cicale, e dentro respiri un odore di tappezzeria igienizzata e combatti con un principio di sinusite. Come se non fosse sufficiente, questo clima artificiale emana da grate poste alla base del finestrino, all’altezza del gomito del passeggero, con il flusso di aria gelidia direzionato, devo dire con una certa perizia, esattamente verso le parti nobili del capo – fronte naso occhi orecchie. Se per assopirti, e per sfuggire alla tortura dello Schienale di Norimberga, hai pensato di sedere accanto al finestrino sì da appoggiarci il capo, hai decisamente fatto male i tuoi calcoli. A meno che tu non abbia uno zio otorinolaringoiatra. O un passamontagna.
Ovviamente, l’intero sistema di climatizzazione è del tutto centralizzato. Sull’Eurostar, dietro l’apparenza asettica, moderna e tardocapitalista, batte un ferreo cuore da funzionario del PCUS generosamente deciso a reprimere ogni forma di individualismo. In quanto gulag semovente dai finestrini piombati, anche sull’Eurostar sono previste punizioni esemplari: è sufficiente che l’impianto di climatizzazione non funzioni. Ed ecco che il gulag si traforma, come in una lugubre reverie revisionista, in un forno crematorio.
Sull’Eurostar, che un botto costa, si sta più stretti, più scomodi, più vicini, e si parla pochissimo. Al massimo, la gente urla per ore nei cellulari di cantilenanti cazzi propri o di business noiosissimi. Molti hanno le cuffie, molti si nascondono dietro lo schermo di un portatile. Se sei seduto al finestrino, spesso l’unica cosa che dici in ore di viaggio è lo “scusa” al vicino quando sei costretto, dalla disposizione idiota dei sedili, a farlo alzare per andare a pisciare. Sull’Eurostar, tutto sembra fatto per negare il treno e ricordare l’aereo: gli spazi angusti, i finestrini piccoli, l’ansia spazialmente indotta che induce uno stato continuo e a bassa intensità di tensione da decollo. Non scherzo: dopo un Milano-Firenze in Eurostar, quasi sempre ho il jetlag. Orecchie tappate, senso di nausea, rincoglionimento.
E un qualche rimasuglio di stupore, non ancora sconfitto dall’abitudine, per la facilità con la quale l’essere umano equivoca l’infelicità con la sensazione di progresso.
L’Eurostar, oggi, domina incontrastato il campo dei viaggi ferroviari sopra i cento chilometri. Gli Eurostar quasi mai sono puntuali: ma le ferrovie fanno arrivare in ritardo tutti gli altri tipi di treno pur di mantenere il ritardo sotto la mezz’ora. L’Eurostar infatti costa un botto, ma se il ritardo è maggiore, mezzo botto a Trenitalia glielo puoi chiedere indietro.
Gli Intercity esistono ancora, ma sono delle truffe rotabili, sporchi, puzzolenti, illuminati da neon che credo Trenitalia abbia vantaggiosamente acquistato a qualche asta successiva alla promulgazione della Basaglia, e al conseguente smantellamento dei manicomi. Hanno ritardi oltre ogni senso del ridicolo. E costano poco meno degli Eurostar.
I pochi espressi rimasti son quelli dei viaggi della speranza notturni, Milano-Crotone, Milano-Agrigento, Milano-Taranto, quelli che sai quando parti ma non sai quando arrivi. In compenso, se li prendi all’inizio della tratta, son decenti e hanno ancora tutto il fascino antico del treno, mezzo bello e popolare.
E con 15 euro, se prenoti un po’ per tempo, ti puoi fare Milano-Agrigento. E magari la notte, se la stagione è bella, puoi pure socchiudere un po’ il finestrino, e guardare i lumi delle case isolate galleggiare nel buio, e fantasticarci sopra, e respirare l’odore della campagna.
Una risposta su “C’era una volta il treno”
[…] (Luca Carlucci, Milano, 17 novembre 2006 – e-published on Nazione Indiana 2.0 and Writing Efforts) […]