di Jaco
Fino a qualche anno fa, prima delle privatizzazioni necessarie, prima dell’Inciucio e dei Celentani in Eurostar, prima che Tornatore mettesse una vacca sui binari a spezzare per un attimo il percorso fra noi e Il Progresso, prima di tutto ciò, il viaggio in treno era per noi italiani il simbolo dell’Uguaglianza.
A tutti coloro che si fossero potuti sentire italiani, il servizio ferroviario di Stato garantiva il diritto alla mobilità, e anche l’accesso alla geografia. Non solo per le ore interminabili passate in piedi nei corridoi puzzolenti a fissare la cartina dell’Italia (messa sempre in prossimità del cesso, quasi fosse lì a segnalarlo per metafora), a scoprire se è più grande la Sicilia o la Toscana, o quanto Torino è più lontana di Milano partendo da Bari. Non solo per quelle stampe sbiadite appese sulle pareti di luridi scompartimenti, che bisognava ondeggiare malfermi per guardarle da vicino e scoprire quali posti fiabeschi del Belpaese illustrassero.
Tutti gli italiani avevano uguale diritto a partire e, ognuno a suo modo, a conquistarsi l’Italia. E mai nessuno, salvo casi gravi, avrebbe fatto qualcosa di serio per farli scendere.
Partire significava raggiungere i propri cari, approdare nei luoghi dove poter scommettere sul proprio futuro in cambio della solitudine, dirigersi verso i luoghi dove poter stare lontani da qualcosa e contemporaneamente maturarne la nostalgia, nello stesso allontanarsi.
Per i viaggiatori di seconda, immersi nel fumo delle sigarette e nell’odore dei provoloni, la differenza fra loro e quelli di prima classe si riduceva ad una questione di rispetto: carrozze sporche per tutti, ritardi uguali per tutti, e tutti ugualmente con lo sguardo puntato sul finestrino, stazione per stazione, ad osservare l’Italia lì fuori mentre ci si muove.
Puttane, grandame, operai, studenti, abusivi e professionisti, tutti con la stessa espressione di chi aspetta qualcosa, disposti a condividere con la chiacchiera o il silenzio reciproco l’esperienza di trasformazione che ogni viaggio porta con sé.
Il neorealismo delle FS, dei film di Pietro Germi e Nanni Loy, quello per cui l’Italia era la somma di tutti quegli sguardi in trasparenza al di là dei finestrini appannati, è ormai destinato all’oblio insieme agli ultimi cinquant’anni di storia italiana. Non c’è nemmeno più motivo di ricordarsene quando Trenitalia oggi supera le forme storiche e si fa vera arte contemporanea, genuina e principale occasione di esperienza del sublime, più di ogni mostra, film, performance o installazione.
Una volta salito sul treno, dopo pochi minuti il viaggiatore si ritrova immerso ed esiliato nell’indeterminabile: bastano pochi annunci incoerenti dello speaker e lui non sa più dove andrà, come ci arriverà… Comincia dunque a disporsi in una attitudine estetica nei confronti del mondo, che gli appare intorno come in una mega-installazione. Il tempo e lo spazio diventano elastici: i ritardi aumentano e diminuiscono in modo apparentemente irrazionale, e lo spazio fuori dal finestrino diventa poco interessante, scorre in fretta e non si può più aprire il vetro per sporgere il naso ed annusare il panorama.
Anche il controllore passa disinteressato, e in questa frattura del mondo si trova finalmente il luogo per pensare a se stessi: guardiamo fuori per guardarci dentro e rimaniamo così imbambolati da questa estetica estatica fino a quando non incontriamo sul ballatoio il pirla che parla di ricchi e Ferrari. Sebbene i suoi sogni siano più pecorecci e masturbatorii delle idee estetiche kantiane offerte dal treno, anche se lui scambia l’arte con l’artefatto, il sublime con il costume, è preda pure lui di un’estasi ed è quindi il caso di lasciarlo in pace, anche quando dice frasi sconnesse del tipo: -“Hai capito? Hanno tersiarizzato la lozistica per ottenere mazzori profitti sulla meccanizzasione! Un volante – oooh, è in fibra di carbonio, stà su con un mignolo – costa sediczimila euro! E poi quando viene lo sceicco e sa che la ferrari di sciumaker gliel’hanno consegnata a più di 150 km, metti… a 153… lui la vuole a 154, e così scatta la gara…”
La funzione estetica di Trenitalia funziona solo a patto di mantenere l’attitudine dell’esteta, senza lasciarsi distrarre dalla pedanteria di appuntamenti, orari di lavoro, gente da avvertire, consuetudini da rispettare. Per apprezzare veramente tutto il bello dell’arte contemporanea oggi, si sa, bisogna essere dandy.
Nell’intervallo di infinito che divide Orvieto da Orte ho pensato che il prossimo spot di Trenitalia potrebbe essere ambientato nel nuovo Eurostar City e avere come protagonisti “Oscar Wilde e Il Pendolare”, con lo scrittore che educa lo sventurato incolto ad apprezzare l’occasione che Trenitalia generosa gli offre a partire da Gennaio, con solo il 10% di aumento sulle tariffe per i treni a lunga percorrenza.
Una risposta su “De profundis”
Se continuiamo su questa rotaia (bella rotaia perché gli scritti sono belli) Trenitalia diventerà la parola più grossa del mio potenziale e futuro tag cloud (scalzando la parola “sigaretta”).