Il nuovo ufficio anagrafe, che non sta più al Comune, è una stanza con una porta a vetri e sei o forse otto moduli numerati composti di pareti senza soffitto e tenda all’entrata.
All’ingresso ti accoglie una signora scura in viso (forse perché è sabato mattina) e un po’ annoiata, che controlla quale cabina è libera con gran movimenti di capo a sinistra e a destra; con tono quasi intimidatorio (come se fosse molto urgente) addita la cabina non appena si libera dicendo il numero a gran voce.
Una volta entrati, un po’ intimiditi, ci si tira la tenda dietro le spalle e ci si siede ad una scrivania.
Si favorisce all’impiegata la vecchia carta d’identità che ne tagliuzza la foto e te la restituisce.
Poi con un apparecchio strano te ne scattano un’altra.
Poi ti fanno firmare una schedina (“nello spazio vuoto bene al centro”).
Poi ti fanno mettere l’indice sinistro su un’altro macchinario che rileva le impronte.
Poi mettono una carta similbancomat in un ulteriore macchianario insieme alla foto, intanto muovono il mouse su uno schermo risolvendo qualche altra veloce operazione, e con gli occhi della routine aspettano che il macchinario sputi fuori la nuova carta d’identità bell’e pronta mentre ti chiedono 6 euro e 20.
L’efficienza può essere inquietante.