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Con brio

Keith Jarrett e la Coca-Cola

di Mr Torrance

Quando arriviamo in platea e ci sediamo ai nostri posti il senso di tensione per l’attesa è grande. Sono anni che sogno di ascoltare dal vivo Keith Jarrett, e stasera finalmente potrò farlo. Un ritardo di appena mezz’ora e il pianista è sul palco, accompagnato da Gary Burton e Jack DeJohnette. Il pubblico accoglie il trio con un’ovazione, e io sono fra quelli che applaudono più forte. Jarrett dà una rapida occhiata alla platea commossa e si avvicina al microfono.

“Io non parlo italiano” – dice – “per questo spero che chi fra voi conosce l’inglese si prodighi per tradurre il discorso che sto per fare. Vorrei dire a tutte le teste di cazzo (“assholes”) con la loro fottuta macchina fotografica accesa di spegnerla immediatamente (“right now” con quel “now” pronunciato “neaooooou” con un tono che fa tanto John Wayne – ndr). Al primo dannato flash, io, Gary e Jack ci riserviamo il diritto di alzarci e andarcene da questa città del cazzo (“fucking town”)”.
E qui finisce la predica. Qualcuno fra il pubblico fischia, ma più che il disappunto è una sorta di stordimento incredulo che si fa strada nella maggior parte di noi. Abbiamo pagato fior di quattrini per ascoltare un artista che amiamo e quello sale sul palco e mentre lo applaudiamo ci insulta urlando al microfono. Il clima di tensione è tangibile, e Jaco, che è seduto accanto accanto a me, controlla ossessivamente di aver spento il cellulare, per il terrore che gli possa squillare durante il concerto. A questo punto penso di non essere più in grado di godermi il concerto.
Jarrett si siede al pianoforte, di spalle al pubblico, e inizia a suonare. Al secondo pezzo, senza neanche rendermene conto, sto piangendo. Me ne accorgo quando mi passo una mano sulla faccia e trovo le mie guance bagnate. Incredibile, mr. Jarrett. L’incantesimo si ripeterà in occasione di altri due brani: una ballad lenta, costruita insieme ai suoi compagni, e una versione sublime di Django di John Lewis. Una magia. Jarrett è capace di prenderti per mano e portarti a passeggiare in Paradiso.
Peccato che alla fine di questa passeggiata ci aspettasse un altro calcio in culo.
Quando il trio torna sul palco per i bis, infatti, un cretino seduto in platea scatta una foto. Jarrett si abbandona ad un commento laconico: “Ok, questo vuol dire che abbiamo finito qui.” Il trio abbandona il palco e Perugia.

Amareggiati e delusi, Jaco ed io ci avviamo alla macchina parlando della musica ascoltata, di una formula ormai cristallizzata, ma in grado di dare ancora grandi emozioni. Ma anche questo non giustifica un atteggiamento del genere. Jarrett pensa di essere Beethoven, e non è così. E comunque, anche se fosse Beethoven, non dovrebbe permettersi di rivolgersi in questo modo al suo pubblico. Penso agli altri grandi del Jazz, come Miles o come Mingus, anche loro irascibili e violenti, ma rispettosi del loro pubblico. Chi non rispetta il pubblico difficilmente è un grande artista.

Nel frattempo, stamattina leggo su Repubblica che Umbria Jazz ha deciso di rompere i rapporti con Jarrett. Il direttore della rassegna confida al quotidiano di essere stanco delle bizze del musicista e dice di Keith Jarrett che “il musicista è sublime, l’uomo molto discutibile”. Concordo e ripenso a quello che mi è stato detto, a fine concerto, da un fan infastidito dal mio disappunto: “Jarrett è così, prendere o lasciare”. “Lascio, lascio molto volentieri”, penso, sulla strada del ritorno a casa.

Poi, però, mi dico che se mai Jarrett dovesse tornare a Perugia, io lo ricomprerei il biglietto. Organizzerei una campagna per finanziare tutti gli spettatori dell’altra sera, convincendoli a tornare, per il bene dell’arte e della musica. Un’ora prima del concerto andrei al supermercato e comprerei 10.000 bottiglie da due litri di Coca-Cola. Mi metterei all’ingresso e le distribuirei a tutti, una ad una.
Come d’accordo, aspetteremmo tutti Jarrett, in un composto e serioso silenzio. Anche gli applausi, sobri ed educati. Più o meno a due brani dalla fine, inizieremmo a bere dalle nostre bottiglie. Molto avidamente. Attenderemmo con pazienza l’inchino del nostro sul proscenio, a fine concerto.
E, al momento della sua massima prostrazione, ci alzeremmo in piedi liberando i nostri ventri della nostra pazienza, con un meraviglioso rutto all’unisono. Per te Keith, la nostra poesia sonora, direttamente dai nostri stomaci, direttamente da questa città del cazzo.

5 risposte su “Keith Jarrett e la Coca-Cola”

Attraverso il suo agente, venuto a conoscenza degli articoli usciti e della posizione ufficiale comunicata da Umbria Jazz nei suoi confronti, Keith ha chiesto scusa per il comportamento poco “urbano” avuto sul palco di Perugia. Ha detto che non aveva nessuna intenzione di offendere la città, ma era solo infastidito per essere stato fotografato per strada.
La sera dopo il concerto di Jarrett sono andato ad ascoltare l’Orfeo di Monteverdi eseguito da Rinaldo Alessandrini e Il Concerto Italiano, ensemble con cui Alessandrini svolge un percorso di ricerca da anni sulla musica barocca e settecentesca. Rinaldo ha dedicato gran parte della sua vita alla lettura e interpretazione delle partiture del genio cremonese inventore del moderno teatro musicale, si è affidato alla sua musica nei momenti più neri. Chi si occupa di queste cose instaura un rapporto particolare con la musica che tenta di riportare alla luce: è quasi come se si attende con pazienza il momento in cui la musica si lasci contemplare, dischiuda alle orecchie le sue bellezze discrete e antiche.
Al termine di un concerto che ha mostrato tutto lo splendore di sonorità che hanno quattrocento anni (Orfeo è del 1607), Alessandrini ha fatto in modo che i cantanti fossero già in proscenio sul finire della musica, in modo da essere pronti a ricevere un applauso torrenziale, meritatissimo.
Alessandrini ha lasciato che i cantanti prendessero gli applausi per primi, e prima di mettersi al centro della fila e ricevere il ringraziamento del pubblico è rimasto indietro. Ha prima ringraziato uno per uno tutti i musicisti che lavorando con fatica hanno permesso quel piccolo miracolo.
Infine, richiamati sul palco, il direttore è entrato in fila con i cantanti, lasciando a loro la strada.
Non facevo altro che pensare a Keith in quel momento, e al senso della musica.
Il giorno dopo insieme a Mr Torrance abbiamo ascoltato dei giovani musicisti di tutto il mondo suonare composizioni originali di jazz. E abbiamo osservato finalmente la direzione in cui la musica, irrefrenabilmente, va.

Magari la Coca-Cola vi sponsorizza, offrendovi la bibita gratuitamente e filmando il rutto oceanico per farne l’oggetto della sua prossima campagna promozionale: un video con lo slogan “Coke pulls out your best Jarrut”.

Buongiorno,
navigando in rete ho avuto ed avrete il piacere di imbattervi nelle numerose fazioni che difendono o condannano il comportamento di Mr. Jarret, durante la sua esibizione a Perugia in occasione di Umbria Jazz.. Ovviamente, e non poteva essere altrimenti , ci sono interessanti riflessioni e distinguo, insieme a numerose analisi dall’artista dal punto di vista umano e artistico.
Se permettete aggiungo il mio inutile pensiero. Inutile perchè il cachèt gli è stato dato prima del concerto, e non ha lasciato neanche i soldi per una bottiglia di champagne.
Ad essere sinceri i pensieri sono due, il primo è frutto della pancia, il secondo dell’encefalo.
Keith Jarrett, nato ad Allentown, Pennsylvania (The Keystone State) nel 1945 è sicuramente di origine statunitense. Lo scrivente, che è uomo viscerale, impulsivo, collerico, e vendicativo odia dal profondo dei suoi villi intestinali: gli stramaledetti United States of America e gli artisti in genere, quindi non può andare oltre la sua bieca peristalsi. “Accidenti a questi artisti del cazzo! A cosa serve l’arte e la cultura se uno deve fare lo stronzo. Aveva ragione Peppe, un paio di lustri a spalare la neve in Siberia e vedrai come gli passano le bizze. D’altra parte da un americano strafottente che vuoi aspettarti.” Questo è il saggio pensiero dell’intestino, non conosce padroni, lo sforzo è breve, l’evacuazione gioiosa. E fino a che la bocca prende e il culo rende non ci sono problemi. Un po’ come la sciagurata uscita del nostro protagonista.
Sorretto dal ponte di Varolio abbiamo il cervello, che risponde al Padrone, alla logica, al pensiero, alle influenze esterne, agli stimoli, alle sensazioni, alle emozioni, al macellaio, all’idrualico, al citofono, alla nonna. Ne farà un po’ troppe!
Jarret è nato in una famiglia multi-etnica, ha studiato e vissuto a Parigi ed a Nuova York, penso che ad oggi oltre ad aver girato il mondo abbia anche fatto un sacco di soldi. Mettiamo da parte i piaceri materiali che potrebbero interessargli di meno. All’età di dodici anni suona come un professionista, durante la sua vita ha avuto l’onore di farlo con Miles Davis, Herbie Hencok, Chic Corea e chissà quali altri mostri del jazz che non conosco. All’inizio degli anni settanta inizia la sua carriera solista, sarà un susseguirsi di successi e riconoscimenti, nel 2004 gli verrà attribuito il Léonie Sonning Music Award, destinato ai compositori di musica classica, era stato precedentemente assegnato ad un solo musicista, Miles Davis. Non so cosa significa tutto questo. Ma com’è possibile che un uomo così grande si riduca a consumare delle così drammatiche figure di merda? Il cervello. Lo stesso che mi ha portato a questo inconcludente ragionamento. Ho sempre preferito la trippa.
Saluti.

Questo post mi ha fatto tornare in mente il concerto di Jarret visto al Lucca Music Festival di qualche anno fa. Compro il biglietto consapevole che fosse una follia: 66 euro con prevendita, io che di solito storgo il naso già sui 20 euro. Ma per lui sì, per lui poteva valerne la pena. Prima di iniziare, ci fa una lunghissima ramanzina sull’uso della macchina fotografica – dev’essere una fissa patologica – senza usare i toni di Perugia, ma in ogni caso con una sorta di disprezzo preventivo nei confronti di un pubblico considerato “deficiente”. Ora io adoro Jarret, il suo tocco sul pianoforte non ha eguali, ma trovo difficile dividere l’artista dall’uomo, e non mi piace uscire da un concerto strapagato con un senso di amarezza. Da quel momento ho deciso di non andare più a un suo concerto e visto che – come disse lui per inibire l’uso di macchine fotografiche – la musica è solo qualcosa da ascoltare, vorrà dire che mi accontenterò di un paio di ottime cuffie.

Un antico detto indiano dice: “Guarda l’arte e non guardare l’artista”.

Ho 28 anni e sono innamorato di Keith Jarrett, suono anche un paio dei suoi pezzi. Questo per dire che sono proprio un patito!
Ero presente a Perugia. E avevo fatto tanta strada, come molti.
Per prendere insulti.
E volete sapere una cosa che vi farà sorridere forse?
Oltre al biglietto e il viaggio (già pesanti per le mie tasche) avevo speso 200 euro il giorno prima in una bella macchina digitale (perchè era rotta quella vecchia) ma l’urgenza l’ho messa perchè cavolo, c’era Jarrett bisognava immortalarlo!
Ero vicino agli organizzatori che mi hanno subito ordinato di tenerla spenta. E sono rimasto molto amareggiato quella sera, non so bene l’inglese ma “fuck-qualcosa” l’avevo capito… E’ un cretino.
Musicalmente niente da dire, anche se ho apprezzato alcune cose ed altre meno (anche se non sentivo una gran qualità audio ad essere sincero) forse era il posto dov’ero io.

Ma Jarrett s’è comportato da scemo.
Probabilmente la gioventù che non ha vissuto per stare solo al pianoforte a suonare (così dice suo fratello nel dvd “non ha vissuto certe fasi che tutti i ragazzi vivono”) ora la compensa comportandosi come un bambino con i suoi amici anzianotti: quella sera aveva l’atteggiamento del bambino che vuole fare il bullo per fare divertire la banda (De Johnette e Peackok), infatti dopo aver fatto il suo discorsino li guardava sorridendo come di chi pensa “avete visto cosa ho fatto?”

Guardiamo l’arte. Non l’artista dunque.
MA VENDETTA SI’! SONO PRONTO AL RUTTO!!!

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