Come si fa, dico come si fa, al giorno d’oggi, a meno che non vi occupiate strettamente di filosofia, filologia, etimologia etc., a cadere ancora in discorsi che ad un certo punto inanellano parole come soggettivo, oggettivo, relativismo fino ad ancestrale?
Si fa. Mi capita spesso, con questo amico, di incappare nei cosiddetti stramaledetti massimi sistemi.
Sì, che mi affascinano in effetti, ma che fatica.
Fumo ottomila sigarette e mi animo, chissà per cosa poi.
Ma la cosa più interessante è la forma di comunicazione. Sembra sempre che parliamo a due livelli diversi (parlo di livelli del discorso), e con lui non riesco a spiegarmi, non riesco a portare la questione a terra, dopo che si è già involata in un qualche tipo di paradigma.
È buffo. E anche stimolante. Ma il punto è che comunque non si arriva mai da nessuna parte.
Gli argomenti sono stati molti e diversi, si sono susseguiti, incastrati (o incagliati forse sarebbe più preciso), annullati, forse contraddetti. Anzi sicuramente.
Ecco:
– il ruolo (che, ovvio, condiziona, ma non è condizione necessaria né sufficiente per la considerazione complessiva della persona, né, soprattutto, per il giudizio di valore sulla modalità in cui quel ruolo è svolto);
– la definizione (io parlavo di definizione a posteriori – che a volte è, a mio avviso, piuttosto inutile, lui ne parlava in senso empirico, cioè parlava del momento della conoscenza, in cui si cerca di definire il nuovo);
– l’umanità. Una parola un po’ difficile…il tutto partiva dalla considerazione del fatto che l’intelligenza – o la saggezza, meglio – sta anche nell’umanità (nell’umiltà) di rapportarsi alle persone in un certo modo. O no?
Infine il discorso si imbatte nella questione della percezione, e poi della comprensione.
Comprendere vs apprendere (e relativi sostantivi, notevole tra l’altro l’evoluzione del significato di apprensione, oggi usata pressoché sempre nel senso di “stato di ansietà, di inquietudine” – non ci avevo mai riflettuto), etc. fino a che cosa?
Mah, niente, pur parler.
2 risposte su “Pur parler”
Arrivare da qualche parte…
Quando si parla di Umanità o di Verità, il punto d’arrivo sembra sempre costituire allo stesso tempo un punto di partenza. Lo sappiamo, ma forse, ciò non è casuale. In poche parole potrei dire che la corruttibilità e dunque la finitudine dell’uomo lo costringono a rimandare sempre il punto di arrivo in un processo che ci appare infinito e che, dunque, non ci è fisiologicamente concesso. Ma questo rimandare non è affatto passivo: esso è piuttosto una tensione. Mi viene in mente la fame: non è forse essa stessa una tensione che non si lascia chiudere una volta per tutte?
Quanto all’utilità di tutto questo dire e contraddire, a parte il romanticismo o l’ancestrale, e nonostante il senso deteriore con cui definiamo l’utile, essa potrebbe consistere esattamente in quel desiderio di conoscenza (filosofia?) che fa di Ulisse un peccatore umano e perciò a noi tanto “pietosamente” vicino. Utile è talvolta, in tal senso, il “lasciarsi provare”. Non intendo il curiosare degli animali ma il desiderio autentico e problematico (datemi ancora un dubbio) di capire.
Il ben dell’intelletto, appunto. In certi discorsi non si casca perché non possono che appartenerci come una sorta di attriburo della specie.
Da nessuna parte…
Ma tutto quel muoversi, tutto quel cercare: davvero possiamo guardare al nostro pensiero come a quacosa che possa definire l’altro e perciò il mondo nell’arco di una notte o due?
Essere incompiuti e immortali…
E davvero il discorso “a terra” è sempre possibile o utile o necessario?
Al di là della sua ovvia quotidianità, come si può non astrarre?
Non è un caso che spesso il problema tenda a rifinire sul concetto di soggettivo e di oggettivo laddove astrarre significa provare a comprendere e tendere ad un discorso oggettivo, lontano cioè dal “secondo me e secondo te”. Sotto questo profilo credo che le parole dei maestri esistano ancora; che ci sia cioè qualcuno che aveva ragione e qualcuno che aveva torto (fino a prova contraria direbbe un mediocre avvocato).
Forse l’inquietudine del pensiero consiste nel fatto che esso, il più delle volte, fa domande anziché dare risposte. E ciò mi sembra il fascino dell’essere soggetti e perciò immediatamente soggettivi. Ma cerchiamo risposte, tendiamo, vogliamo (o dobbiamo) essere.
In quel “fino a che cosa? mah, niente, pour parler”, sento forte una contraddizione.
Piuttosto avrei detto: Ancora niente, soltanto qualche chiesa, qualche rudere, i soliti ulivi bassi dentro le finestre, un pensiero che non mi fa dormire, una sete improvvisa.
Passami un’altra birra.
Finita?
Tutta colpa di quella notevole evoluzione del significato di apprensione…
Ma notevole in che senso?
Notevole nel senso che sarebbe interessante capire quel’è il passaggio per cui, nell’uso della lingua, il sostantivo di un verbo che significa “imparare, conoscere, capire” arrivi a significare “stato di ansietà e di inquietudine”.
Forse, potremmo azzardare, comprendere qualcosa può portare al timore di questo qualcosa, al trovarci faccia a faccia con una realtà che non ci piace.
Sono molto d’accordo con quanto scrivi, Clarino.
Mi sembra d’altra parte che tu stia parlando di nient’altro che di natura umana.
Fare domande, cercare risposte ed essere sempre insoddisfatti di ciò che troviamo passo passo, di modo che possiamo/dobbiamo continuare a cercare.
Dove saremmo altrimenti?
Altrettanto d’accordo sull’utilità dello scambio della parola e delle singole visioni su qualsivoglia argomento.
Parlare con le persone è una delle poche cose che mi piace sempre fare.
Tanto più quando la conversazione assume un tono dialettico.
Fermi questi punti, a volte ho (e ho avuto in passato) la sensazione che l’assurgere al concetto astratto, la tensione alla definizione, il tentativo di definire “oggettivamente” non concerne tanto la volontà di capire o approfondire, quanto l’ansia fine a se stessa di delimitare, chiudere, de-finire, per l’appunto.
Vorrei che fosse chiaro che non voglio fare del blando decostruttivismo, è ovvio che la definizione è fondamentale per la conoscenza e l’apprendimento.
Dico solo che smette di interessarmi quando non è volta ad arricchire, perché, trasformatasi in semplice “conclusione” o “risoluzione” linguistica, smette di prendere in considerazione la varietà del quotidiano, dell’esperienza e del vissuto delle persone – che, per lo meno per quanto mi riguarda, oggi mi interessano molto di più di qualsiasi assunto teorico (oltre al fatto che, ne converrai, da dove partire comunque se non da lì per costruirne uno?).
Non so se ho trovato il modo di spiegarmi, perché rimane la questione dei livelli del discorso 🙂 , ma mi sa che meglio di così non riesco a farlo.