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Cinema

Solaris – Andreij Tarkovskij

di Jaco

Ieri sera, in occasione del ventennale della morte di A. Tarkovskij, in un cinema del posto dove vivo hanno bloccato la programmazione dei film prenatalizi, e hanno proiettato una versione integrale in pellicola di Solaris (1971), in russo sottotitolato in italiano. L’evento non giunge completamente inaspettato perché qui c’è un piccolo gruppo di adepti al culto del regista, fondato e cementato dalla memoria del suo operoso soggiorno in questi luoghi negli ultimi anni della vita.
Avevo visto Solaris la prima volta in una di quelle magnifiche serate di cineclub universitario, in cui si fanno delle scoperte culturali fondamentali e nel frattempo ci si innamora della studentessa straniera della sedia accanto. Poi va male, e si scopre il valore dell’amicizia.
Avevo rivisto il film altre due volte nelle impossibili notti di Raitre e retequattro. La ripetizione culturale e l’occasione filologica dell’originale integrale, insieme ad una promessa di appuntamento puntualmente non mantenuta, mi hanno affascinato: entro quindi a vedere il film, senza sentirmi come un “auto-Fantozzi in ginocchio sui ceci”. Le note di Bach che aprono il film, infatti, mi consolano subito dalla solitudine, e mi cullano verso un irresistibile sonno dovuto alle risicate ore di riposo notturno e alle giornate passate a discutere in continuazione con chicchessia, anche con me stesso (che a volte mi caccerei!). Ma riesco a tenere gli occhi aperti per quasi tutte le due ore e quarantacinque minuti, invocando una volta tanto il miele amaro del doppiaggio…

Solaris è un film etichettato sotto la categoria della fantascienza, ed è di missioni spaziali, astronavi e alieni che apparentemente parla, come il romanzo di Stanislaw Lem da cui è tratto. Ma si viene istantaneamente travolti dai rimandi al Vecchio e Nuovo Testamento, la grande letteratura russa, l’iconografia del cristianesimo orientale, la tradizione filosofica europea del Settecento, la biologia e la culturologia russa contemporanee agli anni in cui il film veniva pensato e realizzato. In questo scorrere fitto di frasi e di immagini che hanno tutte un peso enorme e appaiono tuttavia leggere nel loro fluire sullo schermo, in un film dove si discute dell’esistenza di Dio e dei limiti della conoscenza, Tarkovskij ha la capacità straordinaria di infilarci una “semplice” storia d’amore, delicata quanto drammatica, tragica e surreale quanto ogni storia d’amore slava che si racconti.
Un uomo viene inviato in missione su una stazione spaziale dove accadono cose strane in relazione ai tentativi di contatto con un essere alieno che ha la forma apparente dell’Oceano. Sulla stazione l’uomo ha l’occasione di rincontrare la moglie suicidatasi a causa di un suo tradimento, di ripartire dall’espiazione della colpa per ritrovare l’amore, fino ad accorgersi che la donna senza passato che ha incontrato non è in realtà la moglie ma una proiezione di lei che scaturisce dalla sua mente. Piano piano la donna, immortale, comincia ad acquisire una sua autonomia, e l’uomo si accorge di essere innamorato di lei forse ancora di più di quanto lo fosse stato della vera moglie. Decide quindi di rimanere sulla stazione spaziale per stare con lei, con la prospettiva di poterla amare per sempre.
Non ho visto il recente remake hollywoodiano con George Clooney, e sotto sotto confesso di non volerlo nemmeno vedere. Sicuramente la storia d’amore avrà preso il centro del palcoscenico, ripulita attentamente della tentazione metafisica dell’eternità e del percorso mistico che invita a riflettere sull’inconoscibile. Troppo, per un target di pubblico che ha pagato il biglietto e non può passare due ore per poi uscire e sentirsi idiota: al massimo bisogna dargli la libertà di dare dell’idiota al regista. Io per primo sono invischiato in quel pubblico. Impensabile: un film non può essere un trattato di filosofia.

E invece, uscendo dal cinema dopo aver visto l’originale, ancora una volta, il mondo appare diverso (come dice qualcuno che non mi ricordo, forse Pietro Montani), e io stesso sono diverso. Atterrito, mi chiedo se ci sia ancora oggi un autore capace di una sintesi culturale talmente possente, allo stesso tempo così padrone del mezzo cinematografico. Mi chiedo se forse oggi un artista di questo calibro non sia da cercare altrove, fuori dal cinema. Sono ignorante e non lo trovo, nel frattempo attendo fiducioso.
È vero che il cinema è un’industria, e talvolta Woody Allen può bastare. Tarkovskij ha pagato in patria e in esilio la forza e lo spessore delle sue idee, e non si può pensare che di norma lo faccia ogni regista. Ma la cosa che mi resta difficile da spiegare, e vorrei farlo, a chi non ha visto Solaris è la leggerezza con cui tali contenuti vengono espressi. Un’immagine per tutte: la danza dei due amanti sulle note del corale di Bach, nei trenta secondi di assenza di gravità dovuti ad una manovra della stazione spaziale. Combatto tutti i giorni contro il concetto di Universalità dell’Arte, contro quelle cose pratiche ma tanto evidenti quanto insufficienti di cui parla Montag, eppure in queste occasioni mi sento di cadere in fallo, rimanendo incantato di fronte a quei trenta secondi di abbraccio sospeso.

Oggi cerco nella videoteca di Facoltà se il film c’è ancora, ma non lo trovo. Lo ha rubato uno studente. Spero che lo abbia fatto per quella danza.

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