Memorie di una geisha dura due ore e venti minuti. Il film di Rob Marshall, autore di Chicago, è la storia di una bambina venduta ad una scuola di geishe, che viene prima vessata dalla geisha cattiva Hatsunomo e poi riabilitata e portata alla fama e allo splendore dalla geisha buona Mameha. Non manca il principe azzurro, che trama nell’ombra a favore della sua protetta, né l’amica-nemica (in un rapporto meno sottile di quello tra Red e Toby).
I costumi, la fotografia e le scene (i tre oscar) salvano il tutto; l’interesse va a quella cultura misteriosa e sconosciuta che Rob Marshall ci offre con occhi occidentali.
Ma la storia, come osserva giustamente Davide Morena, sembra proprio un Rocky o un Karate Kid in cui guantoni e arti marziali sono sostituiti da kimono e ventagli.
Il dettaglio storico (la guerra) è un accenno che serve da pretesto per cambiare le carte in tavola.
Due i momenti su cui la mia attenzione ha indugiato piacevolmente: la danza di Sayuri in teatro, dove inaspettatamente la grazia e la lentezza lasciano spazio ai movimenti scomposti di una qualche manifestazione tragica; la frase del direttore generale-principe azzurro al primo incontro con Chiyo bambina: “Nessuno ha nella vita la gentilezza che dovrebbe avere”, per il gusto grammaticale dell’accezione doppia: nessuno la ottiene e nessuno la usa agli altri.