Gentili membri della Giuria,
sono stati giorni intensi e lunghi, non voglio abusare ulteriormente della vostra pazienza. Dunque cercherò di essere conciso, d’altronde, le ultime riflessioni che mi preme sottoporvi sono poche e semplici.
Quando ho deciso di accettare questo caso ero pienamente consapevole della sua complessità ma in qualità di uomo, ancor prima che di avvocato, mi sono sentito letteralmente chiamato ad assumere questo onere gravoso.
Quando queste sette donne, queste sette meravigliose signore hanno preso il coraggio a quattro mani e hanno varcato la soglia del mio studio non ho potuto fare altro che ascoltarle e, conseguentemente, affiancarle nella loro battaglia.
I loro volti, così diversi ma così similmente provati, hanno fugato tutti i miei dubbi.
Potete ancora leggere nei loro sguardi, oggi, quelle pene cui sono state sottoposte nel corso degli ultimi anni. Alcune di loro hanno trovato la forza di uscire dal meccanismo perverso che le vessava, hanno saputo reagire e ridare un senso alla propria vita. Altre, come sapete, non possono essere qui con noi e restituire la loro testimonianza.
Mai era accaduto, prima di oggi, che si dovesse dibattere di simili questioni in un’aula giudiziaria, dunque convengo che l’anomalia del caso potrebbe erroneamente condurre all’uso improprio della legge e delle sue norme.
Ma, gentili membri della giuria, credetemi, non in queste circostanze.
Davvero non in queste circostanze. Non laddove uno stesso uomo ha consapevolmente e volontariamente annientato – perché questo ha fatto – ha del tutto annientato la capacità emotiva e la fiducia nel prossimo di ben sette donne e ne ha portate altre quattro a pazzia! Dovrete perdonarmi: non ho altro nome per un male che costringe delle donne adulte, belle, sane, intelligenti a passare tutto il giorno picchiando la testa contro il muro – e sappiamo bene che non si tratta di una metafora – , un male che le condanna a mutismo per il resto della loro vita.
Vi prego di scusarmi. Non sono consono a questi toni, né avvezzo a commozione.
Per la prima volta nella mia lunga carriera mi sento personalmente coinvolto in quella che considero una vera e propria tragedia umana.
Non fatevi illudere dal fatto che ci troviamo di fronte all’assenza di violenza fisica, non fatevi ingannare dal fatto che i corpi delle mie clienti non portano – grazie a Dio! – i segni delle mani di quell’uomo. I loro cuori e le loro menti sono irrimediabilmente segnati, irrimediabilmente corrotti, hanno perduto la purezza, la lucidità, la possibilità di amare, hanno perduto in poche parole quella dignità che permette a ogni individuo di costruirsi una vita degna di questo nome.
E poiché le mie parole non possono andare oltre – per il semplice fatto che non esistono altre parole per definire un crimine di tale portata e per quantificare l’entità del dolore che ne è scaturito – lascio a voi, gentili membri della giuria, l’onere e il dovere di giudicare, ché questo è il vostro compito, nella piena convinzione che giustizia sarà fatta, se ancora c’è un sentimento umano che tutti ci rende partecipi delle sofferenze del prossimo.
Asciugandosi la fronte con un fazzoletto si sedette, in viso una smorfia mista di stanchezza e di orgoglio.
Qualcuno tossì nella sala, il brusio si spense unanime non appena si alzò l’imputato, cui era stato accordato – così come si concede un ultimo pasto al condannato a morte – di esporre l’arringa finale in sua stessa difesa. Il silenzio era totale, l’aria sospesa e gonfia di attesa, gli sguardi puntati su quella figura esile eppure decisa.
L’uomo cominciò a fissare uno a uno i giurati negli occhi, e anche se questa operazione sembrò a tutti interminabile, nessuno, tanto meno il giudice, si azzardò ad interromperla. Il caso volle che la giuria fosse composta per due terzi da donne, l’accusa sicura che si trattasse di un caso fortunoso.
Appena l’uomo ebbe terminato il suo intenso guardare, quasi avesse intenzione di parlare solamente cogli occhi, una giurata in seconda fila cominciò a piangere. Prima sommessamente, poi con forti singhiozzi. Il giudice strabuzzò gli occhi, stava per chiederle che cosa avesse quando un’altra si alzò all’improvviso dalla sedia e corse via come se nella sala fosse scoppiato un incendio. Un’altra ancora iniziò a strapparsi la camicia e prese a urlare di piacere e mentre continuava a spogliarsi, la ragazza seduta di fianco a lei si tirò in piedi e iniziò a cantare violentemente; quella ancora dietro si strappava i capelli, un’altra prendeva a morsi la borsetta, un’altra ancora prese a saltare e danzare per la stanza incurante degli ostacoli che incontrava al suo passaggio. In breve tempo la sala si era trasformata in un circo, nel palcoscenico di un teatro. Eppure niente richiamava la finzione dell’attore, tutto era vero, tutto accadeva. L’imputato impassibile e tutti gli altri sconvolti e ammutoliti dallo spettacolo.
La giuria dimezzata dalla follia, scomposta e impotente.
– Non serve parlare – disse allora l’imputato – dove è sufficiente riporre lo sguardo.