Praticamente corro a vedere l’ultimo film di Gondry, La science de rêves, tanto mi era piaciuto Eternal sunshine of the spotless mind.
La tematica è la stessa, il conflitto fra la realtà e il mondo della mente – sia esso sogno, immaginazione, desiderio.
E anche qui si snoda tra le maglie (in effetti non avrei potuto trovare parola più appropriata) di un amore non corrisposto.
Stephan si dibatte tra la claustrofobica, monotona e orrorifica realtà lavorativa (una piccola società che realizza calendari) e la fantasia bizzarra, scomposta e surreale in cui personaggi e luoghi fatti di stoffa, cartone, plastica e disegni lo rendono padrone della sua creatività ma soprattutto gli permettono di essere amato da Stephanie, la sua dirimpettaia.
L’idea che muove il film è chiara, perfettamente in linea con lo stile di Gondry, ma la realizzazione, invece, piuttosto confusa. La post-produzione, come in un videocilp, la fa da padrona, il che di per sé non sarebbe un male se non fosse che straborda da tutte le parti. Mi si potrebbe obiettare che beh, questa è proprio la dimensione onirica: costantemente puntellata di nonsense e di eccesso.
Ma non è sufficiente. Il film ne perde; rischia, in mezzo a tutta questa cartapesta, di naufragare, di diventare puro esercizio di stile che diverte solo l’autore. Dove il cellophan smette di essere funzionale al discorso, la noia incombe.
Pur in presenza di alcune punte di genio, come il personaggio del greve collega di Stephan, la macchina del tempo che dura un secondo, o la bellissima scena in cui Stephan tenta un impacciato nascondiglio rimanendo irrimediabilmente a vista.