U’ brùtte, l’homme incomblé, la femme violentée… è la ggènde che se ostìn’a sperar de nascòste, quand nesciùne ‘uàrde.
Michele Santeramo, Cyrano
Nel saloncino del Teatro della Pergola si è raccolta la platea rada e sonnacchiosa di un pomeriggio fiorentino. Dal palco settecentescamente stuccato, il celebre attore e regista polacco Jerzy Stuhr, invitato a parlare della formazione dell’attore, prova a fare un confronto fra il teatro della sua generazione e quello praticato oggi dai suoi studenti. Stuhr è ormai da anni il Rettore dell’Accademia Nazionale del Teatro di Cracovia, ed è quasi giunto al termine del suo mandato. Lo sguardo sul passato lascia candidamente trasparire la vena della nostalgia, ma ciò non gli impedisce di mettere a fuoco in pochi tratti la situazione attuale.
Per Stuhr, il teatro oggi non è più il luogo dove si può parlare alla gente attraverso le sorti messe in scena di un personaggio letterario: il pubblico e gli attori non si rivedono più in Amleto, ma anche Amleto in fondo non è più lui.
Gli attori della sua generazione avevano raffinato la dizione e la tecnica dell’emissione vocale per dialogare con gli altri personaggi in scena, e per riuscire a convincere l’ultimo spettatore in galleria di ciò che stavano dicendo. La scuola li aveva preparati per far questo. I maestri parlavano ai loro allievi e insegnavano loro l’arte della parola. La trasmissione delle conoscenze attraverso la parola era già la dimostrazione della sua efficacia comunicativa.
Oggi invece in scena, prima di parlare, l’attore cerca di toccare il suo partner, di accarezzare il pubblico. Il teatro oggi parla in prima persona, e non è più il luogo delle grandi proteste collettive, politiche o sociali. Il teatro oggi non ha più bisogno di grandi sale per le sue confessioni a bassa voce, masticate in dialetto sul limite delle labbra, e condivise timidamente con un pubblico ristretto.
La scuola ha conservato la sua tradizione educativa ed è rimasta importante fino a che in teatro la parola ha mantenuto il ruolo di strumento primario di espressione. Ma oggi questa non lo è più, e lascia spazio al gesto, all’immagine, ad un’altra disciplina dello spazio fondata sul ritmo della musica.
Ascoltando Stuhr non posso far altro che volare col pensiero al Ciràno di Teatro Minimo, rivisto ancora una volta la sera prima al Teatro Verdi di Poggibonsi: su quella scena sembravano comparire proprio tutti gli elementi elencati dall’artista polacco.
Costretto nel buio della platea, il pubblico infatti non può sapere se il Ciràno che sente parlare lì davanti sia poi proprio il Cyrano di Rostand. Ma non importa: il personaggio è divenuto il luogo della confessione. Se ne può parlare in terza persona: lo fa la sua anima, voce consigliera, o semplicemente voce liberamente uscita da un corpo di attore che si è fatto scena.
Lo spettacolo di Michele Santeramo piega la parola alla confessione, e la voce più intima non parla Italiano ma un gramelot contaminato in cui il Francese dei moschettieri del Re si intreccia e sfuma nelle sonorità linguistiche della Terra di Bari.
Detto questo, con “Ciràno”, Teatro Minimo sembra mostrare come paradossalmente si possa fare teatro di ricerca attraverso la parola. Forse proprio perché la parola della confessione è una parola negata, negata alla sua funzione comunicativa, annegata sulle labbra di chi parla di sé ma non sa come fare. La confessione non deve più convincere nessuno , ma semplicemente venire alla luce.
Finché le necessità di ogni prologo costringono l’attore ad informare lo spettatore per introdurlo al mondo di Cyrano, è facile annoiarsi: i particolari si perdono per strada, e la “messa in scena” si mostra in flagrante, sbruffona, quasi a violare il patto della finzione proprio nel momento in cui la costruisce.
Ma ecco che per miracolo ad un tratto ci si trova tutti lì, accanto a Ciràno, mentre lo si accarezza e lo si consola come non faremmo mai nemmeno ad un amico, ma solo a noi stessi. E lo si fa con poche parole: suoni gutturali, singulti, richiami.
Come in un racconto di metamorfosi, la voce che parla si trasforma progressivamente nel suono del contrabbasso, che comincia a parlare, inarticolato. Parlare d’amore.
Perché il parlare d’amore, alla fine, è sempre disperatamente inarticolato. Le parole di Ciràno riescono ad infiammare il cuore di Rossana, ma lei non ne scorge la sorgente, il cuore da cui nascono. E non si può certo dire che Cristiano non ami. Anzi, lui ama fino a sfidare la morte nell’assalto dei moschettieri, ma non riesce a comunicare: Rossana lo vede, ma non sente il fuoco che arde nel suo cuore.
La confessione d’amore si arresta sulla speranza di poter dire. Come la musica: è lì, fra le trame di arcate e pizzicati intessute da Giorgio Vendola che lo spettatore trova chiare le segrete parole d’amore che non possono comunicare.
La musica è il luogo dove ognuno può trovare la propria confessione, riascoltare la propria storia. Dove nelle fratture del tempo inaugurate da ogni battere d’archetto si può rivivere l’amore, anzi, forse, finalmente viverlo.
La musica è quel luogo intimo dove il brutto, uomo incompleto, donna violentata, può ostinarsi a sperare, di nascosto, quando nessuno guarda.