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Gli scritti

L’illusione dello specchio

di Jaco

Il testo che segue è stato scritto dall’autore in commento a Lo specchio.

Hans von Aachen, (1600 c.a.), Scherzo di coppia, Kunsthistoriches Museum, Vienna

I marinai spagnoli che nel Cinquecento approdavano sulle coste dell’America Centrale erano forse pervasi da una sensazione di onnipotenza: pensavano di scoprire qualcosa. L’emozione più grande della scoperta si condensa nell’atto di dare un nome, e quindi un’identità, a ciò che si trova. Dare un nome a qualcosa di sconosciuto significa portarlo alla luce, darlo al mondo, anche se prima dell’incontro quel qualcosa portava avanti tranquillamente la sua esistenza…ma non importa: sentirsi artefici di una creazione tanto grande convince chiunque a sentirsi di casa non più lontano di due passi da Dio. E i marinai, per una sola volta in un’esistenza miserabile fatta di fame, topi e malattie, rivendicavano il diritto di sentirsi dei.

Anche gli Indios, raccolti sulla battigia in una fila parallela alla schiera dei soldati che venivano loro incontro dal mare, gli sguardi fissi negli occhi uno ad uno, pensavano guardandoli di aver finalmente incontrato gli dei. Non solo forse per il biancore della loro pelle, ma per un oggetto luccicante che pendeva legato ad una catenella, e che presto sarebbe stato donato loro.
Avvicinando l’oggetto al loro volto, gli Indios pensarono di assistere ad un incantesimo: sulla superficie appariva il volto di una persona che non avevano mai visto, se non nei contorni sbiaditi dalle correnti d’acqua o nell’oscurità del sangue dei nemici raccolto in coppe da bere.
Ecco il miracolo: gli dei bianchi concedevano il potere di guardarsi allo specchio, e poter affermare che quelli lì erano proprio loro, se non addirittura qualcosa di più. Gli Indios resero grazie agli dei per i poteri magicamente acquisiti.
Ecco la beffa: i marinai dettero il nome agli Indiani, pensando di portarli al mondo.
Presto si scoprì il malinteso: il nome donato così misericordiosamente dagli Spagnoli non corrispondeva secondo gli indigeni a quei personaggi che apparivano sulle superfici degli specchi, e il fatto che tali immagini apparissero solo in presenza degli interessati non potevano dare adito a dubbi su chi avesse ragione. Gli Spagnoli dal canto loro non avrebbero accettato di buon grado il loro declassamento da semidei a semplici presuntuosi, e dopo quel viaggio così pericoloso avrebbero fatto di tutto per mantenere la loro posizione e continuare a chiamare gli indigeni come più gli pareva e piaceva. La discussione su “chi fosse davvero chi” andò a finire come sappiamo. D’altronde anche l’ultimo verso della Canzone dei Nibelunghi lo affermava già qualche secolo prima: “perché la gioia si volge in dolore”, commentando la fine in strage di una allegra festa di matrimonio.

Forse gli Indios avevano intuito qualcosa di importante pensando che quelli lì dentro fossero qualcosa di più di se stessi. L’immagine allo specchio che ci sorprende ogni mattina, genera felicità o scatena il turpiloquio, spinge verso la serenità o la preoccupazione, forse ci affascina perché si offre a noi improvvisamente come la traccia della nostra esistenza, l’impronta su cui sembra riposare tutta la vita trascorsa fino a quel momento. Il risultato. Ciò che siamo arrivati ad essere. Come siamo finiti.
In un unico istante si raccoglie quindi tutto il nostro passato, anche quello dimenticato. Basta scrutarsi dritto negli occhi per scoprire tutti i dettagli più intimi, compresi quelli che tentiamo di nasconderci ogni giorno. E man mano che diviene consapevole, la scoperta si fa emozionante: siamo soli con noi stessi e ci conosciamo, al di là di tutto quello che ci dicono e che siamo costretti a sopportare là fuori. L’esclusività della scoperta la rende ancora più esaltante: solo noi, e nessun altro, possiamo assistere all’incantesimo e godere di questo potere, perché senza di noi e al di fuori di noi, quell’infallibile ritratto non può essere osservato da nessuno.

Ecco che però, stranamente, incontriamo qualcuno che sembra lo abbia visto a nostra insaputa, e ci sentiamo subito colti in fallo come il bambino con le mani nella marmellata: Dov’ero? Che facevo? Come mai ero distratto? E lei, dove è stata finora? Magari era alle mie spalle e non me ne ero accorto, così intento a guardare me stesso?
Ecco il miracolo: – lei sa esattamente tutto quello che sono! Non so come ha fatto, ma lo ha visto ed è meraviglioso! Finalmente c’è qualcuno che può darmi un nome e portarmi alla luce, dare un senso e una direzione a questo tempo che sembrava passato solo per far afflosciare le carni e sfogliare la pelle.
Ecco la beffa: lei si sostituisce allo specchio, ma ha dei tempi diversi, si corrode più facilmente e le immagini riflesse presto non sono più così nitide, fino ad essere peggio di quelle riflesse sull’acqua dei ruscelli, la quale almeno non ha la presunzione di rappresentare il giusto ma al massimo la verità dello scorrere perenne.
E cominciano le ferite, i dolori, le violenze, le chiusure, i ricatti, fino alla fine, che sembra non arrivare mai.
E torniamo ad osservarci con la coda dell’occhio nei riflessi delle vetrine, mentre camminiamo per strada senza fermarci, un po’ per la curiosità di guadarci come se a vederci fosse un altro, non più noi stessi, e un po’ per la paura di ritrovarsi di nuovo a guardarsi negli occhi, sapendo ormai che quello lì non sei tu, ma qualcun altro che ti vuole far credere di esserlo. Chi sei tu non lo sa disperatamente nessuno, e nessuno può saperlo.

La macchina della rappresentazione riflessa stritola dolcemente con la sua magia persuasiva chiunque le si avvicini. Sembra che l’unico a conoscerne davvero il segreto fosse Perseo, che si servì dello specchio per evitare di rimanere pietrificato dagli affascinanti occhi della Medusa, che in realtà non avrebbero fatto altro che fargli scoprire la sua vera natura di povero mortale. E Orfeo era convinto di conoscere Euridice, e per confermare a se stesso la divinità del suo illusorio sapere non resistette dal girarsi per guardarla negli occhi, perdendola.
L’Aristofane del Simposio pensa i perfetti amanti originari attaccati per la schiena. Non ricordo bene il motivo adesso, forse legato alla spiegazione dell’eterosessualità, o forse per motivare l’impossibilità per le due metà di ritrovarsi dopo la separazione. Mi sembra tuttavia il miglior modo di concepirli: costretti a pensare all’immagine dell’altro senza potersi guardare, senza l’illusione emozionante di riflettersi l’uno nell’altro. Nessuno presumerà mai di sapere “esattamente” come è fatto l’altro solo per il fatto di averlo visto apparire in un momento. Basterà aver capito che, qualsiasi cosa succeda, l’altro è sempre lì alle tue spalle, e per di più ti permette uno sguardo panottico sul mondo. Certo è più difficile muoversi quando si vedono troppe cose e tutte le direzioni sono disponibili, ma è sempre meglio di credere di sapere la verità di qualcosa guardando l’illusione di se stessi.
Lo specchio, si dovrebbe sapere, è solo quello delle proprie brame, e nel frattempo la più bella del reame dorme sicura altrove, sotto gli occhi di sette premurosi nani.

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